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La vergogna di Santiago

La vergogna di Santiago

Calcio d'inizio dello spareggio per andare al Mondiale: una serie di passaggi perfetta, fino ad arrivare in area in pochi secondi e segnare a porta vuota. Una sequenza da sogno, se dietro non ci fosse un incubo. Accadde il 21 novembre 1973 a Santiago del Cile: protagonisti dell'azione irresistibile i padroni di casa, che così si qualificarono a Germania '74.

I giorni del golpe. Pochi giorni prima, l'11 settembre 1973, un sanguinoso golpe orchestrato dalla Cia aveva rovesciato il governo socialista democraticamente eletto di Salvador Allende, instaurando in Cile la dittatura di Augusto Pinochet. Giusto nelle ore dell'assalto coi caccia alla Moneda si era radunata la nazionale cilena, attesa dal barrage intercontinentale che assegnava l'ultimo biglietto per il campionato del mondo. "Avevamo paura per noi e le nostre famiglie, in squadra eravamo quasi tutti allendisti", ha detto poi il difensore Guillermo Paez. Il ct Luis Alamos, che aspettava i giocatori in un albergo della capitale, consapevole del momento drammatico decise di rispedirli a casa: molti di loro furono fermati strada facendo e perquisiti dai carabineros che presidiavano ogni angolo. "Ci lasciavano andare solo perché avevamo la borsa della nazionale", raccontò il difensore Eduardo Herrera.

Infine, a repressione ancora in corso, la Roja si radunò. Per il regime il calcio doveva sforzarsi di essere un'isola di normalità, esportando la faccia pulita della fresca dittatura. Ma la sfida che attendeva il Cile del pallone non poteva essere normale, e di mezzo non c'era solo l'importanza della posta in palio: per uno scherzo del destino l'avversaria era l'Urss, stella polare del blocco comunista, capofila della parte di mondo che avversava la legittimità e l'esito dei tragici fatti cileni. Inevitabilmente la politica entrò a gamba tesa sullo sport, scrivendo una delle pagine più nere nella storia della Fifa e dei Mondiali.

Il doppio confronto si svolse in un clima di aspra polemica, che coinvolse anche i Paesi neutrali: era stato forte l'impatto del golpe sull'opinione pubblica internazionale, e anche nel mondo occidentale - allineato con gli Stati Uniti, mandanti dichiarati della svolta cruenta - non mancavano le voci di protesta. Il pugno duro della giunta militare produsse 40mila desaparecidos e inaugurò la triste stagione dell'Operazione Condor, che - su input di Washington e della Cia - issò al potere governi con le stellette al petto e il sangue sulle mani in tutta l'America Latina.

Senza testimoni. La partita d'andata era in programma a Mosca mercoledì 26 settembre, quando il clamore per la traumatica fine dell'avventura di Allende era ancora grande in tutto il globo: la vigilia fu tormentata, si parlò di tutto tranne che di calcio. Fino all'ultimo non fu affatto sicuro che la nazionale cilena potesse decollare alla volta dell'Unione Sovietica: tra i primi provvedimenti dei golpisti era stato il divieto categorico di espatrio. Furono i buoni uffici di Jacobo Helo, medico della nazionale di calcio ma anche dottore personale del generale Gustavo Leigh, braccio destro di Pinochet, a far sì che si desse il via libera alla spedizione, guardandosi bene dal mettere alla berlina i giocatori più amati, Carlos Caszely, Leonardo Veliz e Francisco Valdes, notoriamente schierati con Allende. La junta volle così lanciare - all'interno e all'estero - un isolato e potente segnale di tranquillità. Ma ammonì la squadra: "Non fate brutte figure". La sconfitta non era un'opzione praticabile.

Altrettanto accadeva a Mosca, dove c'era un fermento uguale e contrario. Il Cremlino aveva rotto le relazioni diplomatiche con Santiago e Breznev in persona aveva disposto che della gara non ci dovesse essere alcuna testimonianza radiotelevisiva: un oscuramento in piena regola. Allo stadio Lenin entrarono centomila spettatori, ma solo una manciata di cronisti accreditati della carta stampata.

Il viaggio del Cile, già lungo di suo, fu un'odissea. Diversi nazionali giocavano all'estero e si sobbarcarono voli infiniti, tra soste, cambi, problemi di passaporto e di visto. Francisco Veliz ed Elias Figueroa furono trattenuti a lungo dalle autorità di dogana, adducendo discrepanze tra le facce e le foto sui documenti. Il centrale Alberto Quintano, che arrivava dal Messico, narrò: "Una volta atterrati a Mosca, dopo non so quante ore e quanti scali, dissero che non mi avrebbero fatto entrare. Mi sedetti sul pavimento della stazione di polizia dell'aeroporto e aspettai. Per pura fortuna, proprio in quel frangente arrivò il resto della nazionale". La squadra cilena, priva di Carlos Reinoso - il club di appartenenza, l'America di Città del Messico, gli aveva negato il permesso di rispondere alla convocazione - fu accolta con freddezza e blindata, e prima del match riuscì a fare solo un allenamento.

Arbitro amico. La partita fu a senso unico: i sovietici, vicecampioni d'Europa uscenti e favoriti dello spareggio, attaccarono a testa bassa e cinsero d'assedio la porta cilena; i sudamericani badarono esclusivamente a difendersi e respinsero con disciplina ogni assalto. Elias Figueroa gratificò l'avversario più pericoloso, il futuro pallone d'oro Oleg Blokhin, di una marcatura feroce: lo picchiò senza ritegno, sempre perdonato dall'arbitro brasiliano Armando Marques. Dall'altra parte la palla buona capitò a Caszely, che s'infilò nello spazio creato dal taglio di Ahumada e si presentò solo davanti al portiere: il suo destro colpì il palo e uscì sul fondo. Finì con uno 0-0 che gli osservatori neutrali definirono unanimemente "poco interessante".

Solo la stampa ospite, schiava della propaganda, esaltò la nazionale come eroica: al rientro in patria i giocatori furono portati in trionfo e ricevuti da Pinochet. Raccontò poi l'unico giornalista cileno al seguito, Hugo Gasc, che l'arbitro era un noto anticomunista e prima della partita era stato addomesticato con successo dai capi della delegazione ospite, forti di buone argomentazioni politiche: "La sua direzione ci aiutò molto".

Due mesi di tensioni. Restava da disputare il ritorno, in programma a Santiago addirittura due mesi dopo, il 21 novembre. Due mesi tesi, lunghi e ricchi di colpi di scena, con russi e cileni a provocarsi a distanza e la Fifa nei comodi e abituali panni del pesce in barile. La federcalcio sovietica non voleva andare in Cile e chiese di spostare la partita in campo neutro, proponendo qualunque stadio della Germania Ovest. Ma le massime autorità calcistiche risposero picche. Quando filtrò la notizia che lo stadio Nacional era diventato un campo di detenzione, di tortura e di assassinio dei prigionieri politici, da Mosca si levarono di nuovo le proteste. La federazione cilena, imbarazzata per la situazione, propose timidamente di spostare il match a Vina del Mar, ma il generale Leigh rifiutò: "Si gioca al Nacional o non si gioca affatto".

Il 24 ottobre la Fifa mandò i suoi ispettori a verificare le dicerie sullo stadio Nacional: la task force, formata dal vicepresidente della commissione arbitrale Abilio de Almeida (brasiliano) e dal segretario generale Helmut Kaeser (svizzero), trovò sugli spalti alcune migliaia di oppositori, ma li sbirciò appena. "Visitarono solo il campo, guardandoci da lontano", raccontò Gregorio Mena Barrales, governatore di Puente Alto, detenuto in quei giorni. I carabineros ripulirono a dovere la scena del crimine e riuscirono a rendere tollerabile l'intollerabile: la commissione, dopo un sopralluogo superficiale e pilotato, decise che si poteva giocare. "Tranquillità totale", scrisse nel rapporto. Per forza: l'ordine superiore era nascondere i torturati e dichiarare che lo stadio serviva solo come punto di verifica per coloro che erano stati trovati senza documenti. Versione al miele che la Fifa avallò senza indugio.

Il niet e la partita fantasma. La nazionale sovietica, in ritiro, assistette impotente allo stucchevole minuetto: "Noi volevamo giocare, eravamo disposti a farlo in qualunque posto e in qualunque momento", disse in seguito il difensore Mikhaylo Fomenko. Dal Cremlino, invece, arrivò in extremis la doccia fredda: niente visto, niente imbarco, niente viaggio, niente spareggio e quindi niente Mondiale. A due giorni dal match l'Urss decise di rimanere a casa: "Gli sportivi sovietici non possono giocare nello stadio macchiato del sangue dei patrioti cileni", sta scritto sul telegramma inviato alla Fifa.

Il governo di Pinochet puntava molto sulla qualificazione: la gara venne presentata come snodo cruciale nella storia del Paese e rampa di lancio del "nuovo" Cile. Appurato che i sovietici non si sarebbero presentati, bastava prenderne atto: invece fu allestita una pantomima allucinante, che vide nell'ineffabile Fifa l'insospettabile alleata dei generali. La federazione internazionale comunicò ai dirigenti di Santiago che il pass per il Mondiale era cosa fatta, ma impose loro di organizzare ugualmente la partita.

La squadra cilena, così, nel giorno e nell'ora stabiliti si presentò regolarmente in campo, sciorinando il suo piatto forte: l'intero attacco del Colo Colo, finalista di Copa Libertadores. Sugli spalti presidiati dai militari c'erano appena 18mila persone, molte meno di quante potesse contenerne il Nacional: molti di loro cercavano semplicemente i familiari desaparecidos. I detenuti erano stati provvisoriamente trasferiti in una località segreta del deserto di Atacama. Il clima era surreale, da partita fantasma, quale in effetti fu: i cileni batterono il calcio d'inizio, si passarono la palla più volte avanzando verso l'area, a rigor di regolamento finendo pure in fuorigioco, ma tant'è.

Il dilemma di Caszely. L'uomo designato a goleare era il bomber Carlos Caszely, militante comunista che solo pochi mesi prima, per le elezioni amministrative, aveva fatto campagna elettorale per il partito di Allende. "Mentre andavamo allo stadio ci fermavano i parenti dei sequestrati e chiedevano di verificare se i loro cari erano nello stadio", ricordò poi. Tra il diktat dei generali - segnare - e la ribellione aperta - calciare la palla lontano - la sua coscienza gli suggerì una via di mezzo: invece di tirare appoggiò a Francisco Valdez l'assist che il capitano - anch'egli vicino al governo decaduto - trasformò nel più facile dei gol a porta vuota.

"Fu la Fifa a ordinarci di giocare e di fare quel gol", accusò Caszely. "Una farsa, una menzogna assoluta, contro tutta la filosofia e l'essenza dello sport - rincarò Veliz - Avevamo i brividi per essere in un luogo di tortura e di morte, provavamo dolore e angoscia. Ma noi giocatori non potevamo fare altro che difendere il nostro Paese". "Furono fatte scelte discutibili - ammise anni dopo il capo delegazione cileno Francisco Fluxà - ma in quel momento ci importava solo qualificarci per il Mondiale".

Siccome quei 18mila avevano regolarmente comprato il biglietto, subito dopo si disputò un'amichevole tra il Cile e i brasiliani del Santos: gli ospiti vinsero 5-0 e nessuno festeggiò.

Dal calcio al tennis. Il 5 gennaio 1974 la Fifa inflisse all'Urss lo 0-2 a tavolino e mille dollari di multa e dichiarò il Cile ufficialmente qualificato. Il sorteggio lo inserì nel girone con le due Germanie e l'Australia: la Roja fu subito eliminata, perdendo all'esordio con i tedeschi occidentali e pareggiando le altre due gare. Nella prima partita Caszely si fece espellere e la stampa di regime lo accusò di averlo fatto apposta, per saltare la successiva sfida con la Germania Est comunista.

La dittatura di Augusto Pinochet è finita solo nel 1990 e quello del '73 non è stato l'unico momento critico del regime in chiave sportiva. Nel 1976, infatti, il caso calcistico si ripeté nel tennis: la nazionale cilena arrivò in finale di Coppa Davis perché l'Urss si rifiutò di affrontarla in semifinale. L'Italia invece decise di gareggiare - non senza aspre polemiche - e l'atto decisivo si tenne nella stessa cornice dell'Estadio Nacional di Santiago: non a caso Panatta e Bertolucci disputarono il doppio decisivo in maglia rossa.

Guarda il gol-farsa del 21 novembre 1973

Guarda un servizio su Cile-Urss del '73

Guarda un documentario sulla "partita proibita" Urss-Cile

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