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La schiena dritta di Carrascosa

Jorge Carrascosa con Berti Vogts e l'arbitro Coelho nel '77 prima di un'amichevole Argentina-Germania
Jorge Carrascosa con Berti Vogts e l'arbitro Coelho nel '77 prima di un'amichevole Argentina-Germania

Calcio e politica, brutto binomio: eterno, spesso nascosto, sempre imbarazzante. Figurarsi quando ci sono di mezzo le vite umane e il sangue innocente: come nel 1978, in Argentina, nel Mundial usato dalla dittatura per legittimarsi agli occhi del pianeta. Com'era ovvio, vinsero i padroni di casa, forti, spinti dal sistema Fifa e da pastette rivelate dal tempo, riassumibili nella "marmelada peruana". Cioè il 6-0 che qualificò l'Albiceleste alla finalissima, ottenuto corrompendo il Perù a più livelli: coinvolgendo il portiere Quiroga - oriundo argentino - e il segretario di stato Usa Kissinger, fino ai narcos colombiani. Solo la più evidente delle amenità di quel Mondiale farlocco.

Si disse che in quel mesedi giugno 1978 un Paese devastato dalla feroce repressione fu felice: difficile sostenerlo. Si disse che la nazionale di Menotti - tiepido verso il regime militare, ma tollerato perché vincente - vinse senza sapere cosa c'era dietro: difficile crederlo. Anche perché il capitano, l'uomo che la coppa avrebbe dovuto riceverla dal generale Videla, aveva snobbato questo teatrino a priori.

Jorge Carrascosa, classe 1948, era il capitano. Terzino sinistro, soprannominato Lobo (lupo) perchè mordeva le caviglie. In carriera, tre club: Banfield, Rosario Central, Huracan. I baffi folti e i lineamenti spigolosi lo facevano più vecchio: era di una generazione cresciuta nella fame, non negli agi degli odierni calciatori bellocci. Non un fuoriclasse, ma un leader, in campo e fuori. Non vinceva da solo le partite, però non te le faceva perdere. Un riferimento, un trascinatore, un uomo vero. Carrascosa sapeva che bisognava conquistare quel Mondiale con ogni mezzo, e sapeva che riuscirci avrebbe prolungato la protervia dei generali e le sofferenze della gente. Carrascosa disse tre volte no: alla vittoria sporca, ai mezzucci per ottenerla, alla gloria personale. Disse no al ct Menotti, suo mentore, allenatore con cui aveva vinto lo scudetto all'Huracan. Si chiamò fuori clamorosamente alla vigilia delle convocazioni: obiettore di coscienza al massacro del suo popolo. E si ritirò dal calcio l'anno dopo, ancora giovane, per lasciare quel mondo alle sue ipocrisie.

Eroe solitario snobbato dalla storia (notoriamente scritta dai vincitori), Carrascosa di quella vicenda ha sempre parlato pochissimo. Ha raccontato tutto nel 2009 al sito argentino NosDigital, partendo dall'antefatto: "Nel 1974, in Germania, ci qualificammo al secondo turno offrendo 25mila dollari ai polacchi perché battessero l'Italia. Non mi andò giù: vincere o perdere dev'essere merito mio, devo giocare al meglio senza incentivi esterni. Bisogna distinguere il bene dal male: quello era doping, era male".

Nel '76 arrivò la dittatura, che ereditò l'organizzazione del Mundial e ne fece una vetrina di se stessa, la parodia posticcia di un'Argentina Felix che non esisteva. "Nella mia carriera - ricorda carrascosa - avevo notato tante cose del calcio che non mi andavano. Mi sentivo fuori posto, incoerente coi miei principi. Quello che succedeva, sui campi e nel Paese, non mi faceva stare bene. E non era la stessa cosa che il Mundial fosse allestito dai militari piuttosto che da un governo democratico. Non condividevo che vincerlo fosse questione di vita o di morte: avevo sempre creduto nella lealtà, nella vittoria del migliore senza sotterfugi né isterismi, e che non si potesse vincere sempre e bisognasse accettare le sconfitte. In quel momento non era così: per me una partita di calcio era solo una partita di calcio. Non c'entravano amici, fratelli, il Paese, la vita: ci sono cose molto più importanti di una partita. Non potevo andare al Mundial con questi presupposti, visto quello che stava succedendo nel mio Paese, e non avrei potuto farlo neanche nel 1982, in piena guerra delle Falkland, se avessi continuato a giocare e fossi stato convocato".

Dire no a Menotti, quindi indirettamente a Videla, "era chiaramente un rischio, ma non lo sapevo fino in fondo: per me fu naturale agire così, prima viene l'uomo e poi la professione. Nessuno immaginava la gravità dei crimini che accadevano vicino a noi. E se qualcuno te li raccontava era difficile credergli, anche perché i giornali non ne parlavano".

Rileggendo quella decisione col senno di poi, la riflessione di Carrascosa è ancora più interessante: "Rifarei quella scelta, ma commisi l'errore di pensare che tutto il male stesse nel calcio. Quando uscii dal mondo del pallone scoprii che non è altro che un riflesso della società. Ci sono tre opzioni di fronte al business selvaggio, che sacrifica i principi e bada al tornaconto personale: provare a cambiarlo dall'interno, ma bisogna avere un po' di potere; entrarci, chiudere gli occhi e far finta di nulla; starne fuori. Ho scelto quest'ultima e sono stato meglio con me stesso: non fu difficile, bastò capire che i valori venivano prima del denaro".

E conclude: "Etica, morale, dignità e onore sono parole sacre. Ho ancora sogni e ideali, anche se mi disillude sapere che poco è cambiato da allora. Ho sognato di cambiare il mio quartiere, il calcio, la squadra, il Paese: lottavo per queste cose, esprimevo così la mia identità".

Chi è oggi Jorge Carrascosa? "Guardo ancora il calcio giocato, è emozionante. E gioco con gli amici, sempre marcando stretto l'attaccante di sinistra e cercando di anticiparlo. In campo torno ragazzo".

Dopo il gran rifiuto di Carrascosa, la coppa dalle mani insanguinate di Videla la prese Daniel Passarella, il nuovo capitano. In seguito, molti calciatori di quell'Argentina hanno fatto a gara per smarcarsi e ripulire un po' quel successo.

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