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Un italiano e un dentista padri del Brasile campione

Pelé abbracciato dal dottor Paulo Machado de Carvalho negli spogliatoi dopo la finale mondiale 1958 vinta sulla Svezia
Pelé abbracciato dal dottor Paulo Machado de Carvalho negli spogliatoi dopo la finale mondiale 1958 vinta sulla Svezia

Il Brasile ha vinto il suo primo Mondiale nel 1958, al sesto tentativo. Lo ha fatto con una grande squadra, ma quelle le ha avute anche prima. Lo ha fatto con un fuoriclasse assoluto come il 17enne Pelé, ma quelli li ha avuti anche prima. La differenza? Nella gestione: il Brasile del 1958 è ancora oggi l'unica squadra non europea capace di vincere un Mondiale in Europa perché si è saputo finalmente europeizzare. Ha abbandonato un certo folklore e la voglia di attaccare sempre e comunque: ha imparato a programmare e a difendersi. Dimentica il Maracanazo del '50 grazie a una sterzata stilistica che rasenterebbe la blasfemia, se non spalancasse le porte al trionfo tanto atteso.

In campo, in Svezia, c'è un'accolita di eccellenti giocatori. Ma se rendono al top il merito è di quelli che stanno dietro le quinte e li mettono in condizione di non sbagliare sul più bello, come gli è sempre capitato in precedenza. Sono tre i nomi che i tabellini non riportano, ma si tratta dei veri artefici della vittoriosa campagna scandinava.

Vicente Feola. Il commissario tecnico, figlio di immigrati campani, ex giocatore del San Paolo. La federazione lo assume nel '57, dopo una rovinosa sconfitta con l'Argentina che costa il posto a Silvio Pirillo. Feola ha appena vinto due campionati col San Paolo, è tra i pochi a capire veramente qualcosa di tattica. Omarino rubicondo e saggio, riesce nell'impresa di fondere mirabilmente le due anime del calcio brasiliano: la fantasia carioca di Rio e l'organizzazione paulista. E nel modulo s'ispira al meglio dell'avanguardia calcistica di quel momento: la grande Ungheria, che nel '56 è stata in tournée in Sudamerica e ha sfoderato un gioco inedito. Il ct magiaro Guttmann, invece di tornare in Europa, si è fermato proprio a San Paolo, dove Feola ne ha studiato metodi e idee. E finisce per copiarlo: abiura il classico WM (cioè un 3-2-2-3) e introduce il 4-2-4, una rivoluzione che in pochi comprendono subito. Passa da tre a quattro difensori, con ciò coprendo meglio l'area e chiedendo pure all'uomo aggiunto, preso dal centrocampo, di avviare l'azione; dà carta bianca alla corsa delle ali, raccomandando loro però di tornare quando la palla ce l'hanno gli avversari; ed esalta le doti dei due attaccanti centrali. L'equilibrio del tutto passa dall'intelligenza dei terzini - fin lì abituati a scorrazzare senza mai guardarsi alle spalle - e della coppia di mediani. I terzini sono i Santos, i mediani sono Zito e Didì: bingo. La strategia è chiara: basta corse rutilanti, ingorde e presuntuose, ora si fa possesso palla, si porta pazienza e si colpisce al momento giusto, calando uno dei tanti assi nella manica. Funziona. Il Brasile ci mette un po' a trovare la quadra, poi diventa imbattibile: d'accordo coi senatori dello spogliatoio, a torneo in corso Feola aggiusta la formazione e crea la squadra perfetta, che macina Urss, Galles, Francia e la Svezia in finale.

Paulo Machado de Carvalho. Il responsabile dello staff della nazionale. L'uomo che sistema tutti i tasselli, soprattutto il capo della junta medica. Un'idea di Feola, che però non ha le conoscenze specifiche per metterla in pratica in prima persona: lo slogan è "servono atleti, non funamboli". La junta medica annovera fior di specialisti di ogni settore clinico e ha la missione di selezionare gli elementi più robusti tra oltre 200 papabili: ne scarta tantissimi, ora per lievi difetti fisici, ora per asserite fragilità caratteriali. Uno strizzacervelli, Cavalhares, valuta i profili psicologici, e il referto non è incoraggiante: parla di personalità infantili, di quozienti intellettivi bassi, di incapacità di dare forma alle cose. La mannaia della commissione taglia pure nomi illustri e fa una drastica scrematura: restano appena 32 atleti perfetti, più un'unica eccezione, Garrincha. Costui è gracile e ha le gambe sghembe, ma è un talento irrinunciabile: garantisce Feola, e ha ragione. La preparazione fisica mirata fa il resto: è un Brasile professionale e tirato a lucido.

Mario Trigo. Oggi il custode dei segreti dello spogliatoio è il massaggiatore. In principio, però, fu un dentista: all'inizio del preritiro premondiale di Rio de Janeiro, Mario Trigo è incaricato di controllare le bocche dei convocati. Sembra una trovata eccentrica, invece rientra nella ricerca della perfezione fisica di cui sopra. E dà risultati incredibili: il dentista si rivela uno dei personaggi chiave dell'avventura, poiché in pochi giorni effettua la bellezza di 500 interventi tra carie, otturazioni ed estrazioni. Soprattutto, nel suo studio i giocatori si confidano, anzi si confessano: al punto che, alla partenza per il vero ritiro di Pocos de Caldas, è proprio la squadra a chiedere che sia aggregato alla comitiva anche Trigo, di cui apprezza la capacità di sdrammatizzare e di ascoltare.

Quel Brasile sano, sereno ed equilibrato sfata il tabù e porta per la prima volta a casa la Coppa Rimet. Replicherà nel 1962, sulle medesime basi. E, a ben guardare, la sintesi svedese sarà la madre di tutti, ma proprio tutti, i cinque successi iridati dei verdeoro.

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